Il mito della caverna
Cosa sappiamo veramente?
Possiamo essere sicuri di qualcosa? Sono forse ombre riflesse quelle che percepiamo come "cose vere"?
Platone capiva il problema. Platone si chiedeva quali garanzie potesse darci il mondo sulla realtà
delle cose, Platone non era soddisfatto di una conoscenza senza fondamento, Platone voleva una certezza
logica, immutabile, garantita per dare un senso all'esistenza.
Platone ragionava: quello che vedo, a volte, mi inganna, perché non potrebbe ingannarmi sempre?
Il fatto che io, spesso, non mi accorga dell'inganno rende l'inganno meno grave?
Come posso fidarmi?
Dopo 4000 anni noi siamo ingannati dalle cose esattamente come Platone, ma abbiamo smesso di
farci delle domande a proposito: la realtà non conta più, è l'impressione che regna, questo è
il regno dell'immagine.
Non importa se qualcosa sia vero o meno, conta solo quanta gente ci crede (o fa come se ci credesse);
non conta se qualcosa sia giusto o sbagliato, vale solo quanta gente lo sa.
E la gente non sa più nulla.
Platone forse non lo percepiva in modo così determinante, ma era il suo "farsi queste domande" che
lo qualifica ancora oggi come un grande essere umano. Kant diceva di "usare l'umanità, in noi
come negli altri, sempre come fine, mai come mezzo", voleva dire, fra l'altro, che occorre
rispettare il nostro essere umani, occorre continuare a porci le domande, anche quando la
risposta è lontana, anche se la risposta non c'è.
Rousseau scriveva: " un uomo veramente libero vuole solo ciò che può e fa solo ciò vuole",
ma se non si fa domande, non saprà mai cosa vuole, né cosa può.
Allora noi, oggi, siamo davvero uomini "duri", cui nulla è impossibile, ai quali il mondo
"gira intorno", anzi cui il mondo
" è tutto intorno" o siamo dei ben pasturati "cervelli nella vasca"?