HILARY PUTNAM
"Riteniamo che vi siano interpretazioni migliori e peggiori-
altrimenti che senso avrebbe discutere? "
INDICE
VITA E
OPERE
LA FILOSOFIA
DEL LINGUAGGIO E DELLA LOGICA
REALISMO
METAFISICO
REALISMO
INTERNO
TERRE,
GEMELLI E GATTI-ROBOT
CERVELLI IN
VASCA E SCETTICISMO
TRA
PLURALISMO E DEMOCRAZIA
VITA E OPERE
Hilary Putnam, uno
dei più importanti filosofi statunitensi della generazione successiva a Quine,
nasce a Chicago il 31 luglio 1926 da famiglia ebraica. La sua formazione
filosofica si muove fra le correnti analitiche di derivazione neopositivistica
(il filosofo può annoverare Reichenbach e Carnap fra i suoi insegnanti) e la
tradizione pragmatistica americana (i cui nomi portanti sono Dewey, James,
Peirce e quindi Quine, con cui Putnam si incontra poco dopo il ritorno
dall'Europa di quest' ultimo). Si diploma nel 1948 all'Università della
Pennsylvania e consegue il dottorato a Los Angeles nel 1951. Inizia nel 1953 a
Princeton la sua carriera accademica come assistente e nel I960 diventa
associato di filosofia, dal 1961 al 1965 insegna al MIT (Massachusets Institute
of Technology) e quindi si sposta all'Università di Harvard- nello stesso
periodo si getta nell'impegno politico e aderisce a posizioni pacifìste e
marxiste (sono gli anni della guerra in Vietnam), entrando a far parte prima del
movimento Studentsfor a Democratic Society e poi di un gruppo maoista interno a
quello stesso movimento, i Progressive Labor Party. Mette così a frutto le
giovanili letture fìlosofiche di Kierkegaard, Marx, Freud e dei francofortesi,
che lo convincono che la filosofia non è soltanto un impegno teorico o, peggio,
accademico; in seguito tuttavia abbandona questo radicalismo politico. Inoltre,
amplia progressivamente lo specchio dei suoi interessi e giunge a occuparsi
anche di etica e di estetica, ambiti lontani dalla sua primitiva formazione
neopositivistica, consapevole che i valori influenzano la scienza. Da1 1976 è
Professor of Modern Mathematics and Mathematical Logic sempre all'Università di
Harvard. Sposato due volte e appassionato di cucina, è membro corrispondente
della British Academy e ha ricevuto molti riconoscimenti internazionali fra cui
due lauree ad honorem. Negli anni Cinquanta ha pubblicato una serie di articoli
di filosofia del linguaggio e di logica; la maggior parte dei suoi articoli
composti a cavallo fra gli anni Sessanta e Ottanta si trova ora raccolta nei tré
volumi dei "Saggi filosofici", intitolati rispettivamente "Matematica materia e
metodo" (1975), "Mente, linguaggio e realtà" (1975) e "Realismo e ragione"
(1985). Nel frattempo, però, anche le preoccupazioni etiche si fanno breccia
cosicché Putnam da alle stampe nel 1978 "Verità e etica", dove, tra l'altro, si
annuncia la svolta nella sua concezione del realismo, e nel 1981 "Ragione,
verità e storia". Le indagini sul realismo divengono quindi il tema centrale
della riflessione del filosofo che ad esso dedica i suoi più ampi sforzi,
pubblicando nel 1987 "La sfida del realismo" (nato a partire dalle Paul Carus
Lectures tenute a Washington nel 1985), nel 1988 "Rappresentazione e realtà" e
nel 1990 l'ampio "Realismo dal volto umano". Il recupero del pragmatismo è
invece al centro del recente "Il pragmatismo: una questione aperta" (1992), che
raccoglie una serie di conferenze tenute da Putnam a Roma. Il suo ultimo libro è
"Rinnovare la filosofia", del 1992, una serie di saggi che coprono un ampio
spettro di tematiche, dal bilancio sul ruolo di filosofi ormai classici come
Dewey o Wittgenstein alla filosofia della mente, dalla filosofìa del linguaggio
allo spazio che devono avere anche all'interno della filosofia analitica le
tematiche morali e religiose.
LA FILOSOFIA DEL LINGUAGGIO
E DELLA LOGICA
Putnam nega quinianamente l'esistenza di verità a priori : la stessa
geometria euclidea è una teoria sullo spazio finito e dunque risulta empirica,
ossia, in termini kantiani, sintetica. In "L'analitico e il sintetico" (1962)
Putnam contesta tuttavia la reiezione quintana dell'analiticità, che a suo
avviso invece si può e si deve in qualche modo continuare a sostenere: la
critica di Quine ha avuto il merito di mostrare la connessione strettissima fra
le nozioni di significato, di analiticità e di sinonimia, ma da ciò non discende
che non sia opportuno mantenere quella distinzione; anzi, Quine sembra aver
identificato erroneamente l'analiticità con l'a priori. A giudizio di Putnam non
è possibile trovare un criterio adeguato e rigoroso per definire le nozioni
analitiche, e allora egli fa ricorso a un criterio pragmatico per identificarle:
esse sono tali perché le intendiamo senza poter dare ragione di questo loro
carattere, anche se talvolta dobbiamo affidarci a degli "specialisti" per
distinguerle da quelle che non lo sono e che pure sembrerebbero esserlo. Esse
vengono fissate mediante una "convenzione implicita", il che non esclude
tuttavia la loro rivedibilità. Allo stesso modo, nei saggi "Sulla tesi che la
matematica è riducibile alla logica" e "Che cosa è la verità matematica" il
filosofo asserisce la correggibilità della conoscenza matematica, che dunque non
è fondamentalmente diversa dalla conoscenza empirica. Infatti, il carattere a
priori della verità matematica e logica è tale solo all'interno del nostro
schema concettuale, e sembra allora potersi ravvisare in Putnam una forma di
costruttivismo: non è necessario dover scegliere fra platonismo (che ritiene le
entità matematiche esistenti al di fuori della nostra mente) e nominalismo (che
le ritiene mere costruzioni mentali), perché la conoscenza delle entità
matematiche non è indipendente dalle nostre esperienze e tale posizione viene
definita "aristotelica" dal filosofo stesso. La matematica, a differenza di
quanto ritengono i platonisti, non ha oggetti propri, semplicemente si occupa di
oggetti non reali, ma astrattamente possibili. La conferma delle teorie
matematiche non sarà tuttavia costituita da generalizzazioni induttive, ma da
metodi che fanno parte della prova stessa, cioè che sono in certo modo a essa
interni. Lo sfondo realistico è presente anche in "Filosofia della logica"
(1972), che combatte il nominalismo affermando l'esigenza delle classi e la loro
ineliminabilità.
REALISMO METAFISICO
Gli scritti degli
anni Settanta sono condotti da una prospettiva che Putnam stesso chiama realismo metafìsico , la presupposizione, cioè,
dell'indipendenza della realtà dalla mente umana, che può essere pertanto
smentita dalla prima. Questa forma di realismo si accorda sia con il "realismo
ingenuo" (quello tipico del senso comune), per il quale esistono gli oggetti
della nostra esperienza ordinaria, come i tavoli, le sedie e i cubetti di
ghiaccio, sia con il realismo forte degli scienziati, per i quali esistono le
entità inosservabili a cui fa riferimento la scienza, come gli atomi, i quark
ecc. In particolare, nel secondo volume dei "Saggi filosofici" Putnam difende il
cosiddetto realismo empirico , fondato sull'inferenza
alla miglior spiegazione: sia le esperienze quotidiane sia gli esperimenti di
laboratorio confermano che la realtà esiste, che è indipendente da noi e che
rende vere o false le nostre proposizioni. Questa teoria è certamente un'ipotesi
empirica, cioè non può ottenere una fondazione apodittica e perciò definitiva,
ma possiede una tradizione amplissima che va dall'antichità a Kant e che a
tutt'oggi non è stata soppiantata da nessuna migliore ipotesi. Peraltro, il
realismo metafisico si è storicamente attuato in una grande varietà di
atteggiamenti, come il materialismo, l'idealismo, il soggettivismo, ma tutti
accomunati dalla pretesa di individuare una stabile essenza "definitiva" della
realtà. Per il realismo esterno, come la realtà è una sola, una totalità di
oggetti interamente precostituita rispetto alla mente umana, così c'è una sola
descrizione vera di com'è il mondo e la teoria della verità che ne consegue è
corrispondentistica, nel senso che la nostra descrizione della realtà per essere
vera deve ricalcarne esattamente la configurazione. Tale prospettiva è da Putnam
definita "esternista", perché considera la realtà non dal punto di vista
dell'uomo, ma da un ipotetico punto di vista esterno e neutrale, come potrebbe
essere l'occhio di Dio.
REALISMO INTERNO
In "Verità e etica"
assistiamo a una fondamentale svolta di sapore trascendentale nella concezione
di Putnam del realismo: se la rivoluzione copernicana di Kant aveva insegnato
che la nostra apprensione della realtà non è indipendente dal nostro apparato
categoriale, adesso Putnam sostiene che è certo possibile pensare con il vecchio
realismo metafisico a un mondo indipendente dalla nostra mente, ma che tale
convinzione si paga al caro prezzo della sua stessa conoscibilità. Per contro,
il mondo esiste per noi, cioè è per noi conoscibile solo attraverso gli
strumenti che adoperiamo per conoscerlo, e di conseguenza l'ontologia, cioè
l'insieme degli oggetti mondani la cui esistenza noi siamo disposti a
riconoscere, viene assunta all'interno di una teoria previamente assunta sulla
costituzione del mondo. Ad esempio, se la nostra teoria ci consente di parlare
dell'elettrone, vuol dire che noi ci muoviamo già all'interno di una teoria che
ammette e riconosce gli elettroni. Il realismo metafisico non è inammissibile,
ma diventa sterile perché ci costringe a rinunciare a qualsiasi tesi su com'è il
mondo; di conseguenza, l'unico realismo plausibile da un punto di vista
gnoseologico è quello interno, prospettiva introdotta da Kant, reperibile quindi
in autori come Peirce, Wittgenstein e in tempi più recenti nel costruzionismo di
Goodman e nell'antirealismo semantico di Dummett. L' internismo che Putnam sostiene può ammettere (anche se non
necessariamente) che esista più di una descrizione vera del mondo: in questo
modo si effettua una combinazione di due differenti prospettive. Da un lato
vengono riconosciuti elementi derivanti dal mondo esterno che sono in
connessione dialettica con la teoria, la quale dunque non ha per unico
contrassegno la coerenza interna ma deve continuare a rispondere all'esperienza;
dall'altro lato si sostiene che questi elementi non sono neutrali, ma hanno la
loro esistenza e traggono il loro rilievo solo perché assunti all'interno di una
determinata prospettiva teorica. Di essi, dunque, non si da una sola descrizione
vera, come se fossero indipendenti da qualsiasi scelta concettuale, come non
sono neutre nemmeno le nostre sensazioni. Questo realismo, sebbene possieda
indubitabili tratti kantiani, rigetta con decisione la "cosa in sé". Il realismo
interno è ben attento a non sfociare nel relativismo assoluto e tanto meno nello
scetticismo, e pur non condividendo il realismo metafisico non contraddice
quello del senso comune e della scienza: esso non ci porta a dubitare
dell'esistenza della realtà esterna, anche se la sua immagine nella conoscenza è
costituita dalla collaborazione fra gli enti e il mondo stesso. Resta infatti
aperta la possibilità che descrizioni differenti della realtà siano compatibili:
com'è possibile conferire forme diverse alla stessa materia e nessuno direbbe
che si tratta di materie diverse, così si può descrivere la realtà come composta
da tavoli, sedie e cubetti di ghiaccio oppure da atomi tenendo fermo che si
tratta pur sempre delle stesse cose, anche se le due versioni del mondo, pur
strettamente correlate, sono irriducibili l'una all'altra. È dunque possibile
essere allo stesso tempo sia realisti sia relativisti concettuali. I concetti,
il nostro apparato categoriale sono indubbiamente relativi alle diverse culture,
ma non tutto è assolutamente relativo e incommensurabile nelle varie culture. E
se da un lato non esiste un punto di vista assoluto da cui giudicare le
questioni, e quelle ontologiche per cominciare, dall'altro non può essere
neppure vero che tutto dipenda semplicemente dalla nostra cultura di
appartenenza. Gli oggetti esterni permangono e noi abbiamo la possibilità di
dire (secondo una o più descrizioni) come sono, anche se non possiamo dire come
sono indipendentemente da ogni nostra scelta concettuale. In tal modo Putnam non
ritiene con Goodman (e meno che mai con Rorty) che il mondo vada "perduto", dal
momento che versioni concettuali diverse per lui rimandano comunque all'unico
mondo esistente. I fatti non vengono costituiti da noi, sono indipendenti e
preesistenti, anche se possiamo parlarne solo dopo l'assunzione di un
determinato linguaggio; e infatti è proprio il linguaggio, connotato da una
natura intrinsecamente sociale e soggetto al mutare delle culture, lo strumento
mediante il quale noi organizziamo l'esperienza.
TERRE, GEMELLI E GATTI-ROBOT
Trasversalmente al
modificarsi delle posizioni sul realismo, Putnam sviluppa una teoria del riferimento che invece mantiene in gran parte
immutata nel corso della sua riflessione e che si inserisce nell'ambito della
cosiddetta teoria causale del riferimento . Sappiamo che la tradizionale teoria
del riferimento di matrice freghiana sostiene come esso venga determinato
mediante descrizioni, per cui conoscere il significato, significa possedere la
conoscenza di alcuni tratti dell'oggetto indicato: il paradigma tradizionale si
caratterizza così per essere eminentemente denotazionale e mentalistico. In
netta contrapposizione a questa visione, nel celebre saggio "Il significato di
'significato'" (1975) e in molti altri scritti successivi Putnam sostiene che
l'elemento costante del significato, che si mantiene anche quando un determinato
termine viene usato in due teorie diverse, è l'identità del riferimento. Ciò
implica l'invarianza del significato dei termini osservativi anche nel mutare
degli enunciati teorici e contrasta la tesi di Feyerabend del carattere pregno
di teoria di tutti i termini. Putnam ipotizza il caso di una Terra Gemella in tutto uguale alla nostra tranne che nella
composizione chimica dell'acqua: un astronauta che vedesse l'acqua della Terra
Gemella la chiamerebbe tranquillamente così finché non l'avesse analizzata,
scoprendo che la sua composizione non è H2O, bensì XYZ; a questo punto egli
affermerebbe che nella Terra Gemella "acqua" non ha lo stesso significato che
sulla nostra Terra, poiché lì significa (cioè si riferisce a) XYZ e qui, da noi,
H2O. Se tuttavia non pensiamo all'astronauta ma a un ipotetico visitatore
terrestre che fosse riuscito a recarsi nella Terra Gemella per esempio nel
Settecento (o comunque anteriormente allo sviluppo della chimica moderna),
allora il terrestre e l'abitante della Terra Gemella continuerebbero a usare lo
stesso termine riferendosi (inconsapevolmente) a due sostanze diverse, ma - e
questo è essenziale per Putnam - essendo in possesso delle stesse nozioni
sull'acqua: che è incolore, inodore, insapore, che disseta ecc. Questo dimostra
che non sono le conoscenze dei parlanti a determinare il riferimento, ossia che
l'estensione del termine non è funzione esclusiva degli aspetti cognitivi o, in
altre parole ancora, che i significati non sono nella
testa . Infatti il terrestre e l'alieno della Terra Gemella indicano con
il termine "acqua" due cose diverse pur trovandosi nella medesima condizione
psicologica (cognitiva). Il significato si correla allora all'oggetto, nel
nostro caso all'acqua, in virtù di un'operazione sociale, cioè di una relazione
causale che sussiste fra i parlanti e il referente reale del termine.
L'estensione è determinata dalla natura degli oggetti a cui il termine si
riferisce, indipendentemente dalle conoscenze di cui sono in possesso i
parlanti, cosicché sulla nostra Terra "acqua" si riferirà esattamente a H20 e
sulla Terra Gemella a XYZ. A sua volta, il significato viene fissato dal
riferimento e quindi trasmesso dalla competenza semantica dei parlanti. Il
termine viene attribuito a un determinato oggetto in base a un battesimo iniziale , è indipendente dalle idee che se ne fanno
i parlanti e si riferisce e continua a riferirsi al genere di cose a cui viene
riferito all'inizio del tutto indipendentemente dalle proprietà delle cose
stesse. Ma a chi spetta questo battesimo? Poiché la competenza semantica è
complessa e socialmente stratificata e da pertanto origine a quella che Putnam
chiama la divisione del lavoro linguistico , all'interno
della comunità vi sono persone le cui conoscenze intorno a un determinato genere
di cose sono maggiori di quelle in possesso di altre persone. È dunque molto più
naturale che siano queste a fissare il riferimento dei termini, mentre gli altri
parlanti erediteranno tale denominazione entrando in possesso del mero
stereotipo, cioè una serie di caratteristiche tipiche e fondamentali (molto meno
ricche e articolate della conoscenza che possiedono gli "esperti") che tuttavia
consentono comunque la corretta identificazione dell'oggetto e la trasmissione
della competenza semantica. Ma il significato è indipendente dallo stereotipo : infatti esso viene fissato in relazione al genere
naturale di cose in riferimento a cui è stato creato il termine e mantiene
questo riferimento anche se ci si dovesse accorgere poi che lo stereotipo è una
rappresentazione largamente inadeguata del genere che indica: ecco perché, dice
Putnam, se noi scoprissimo che i gatti non sono in realtà che robot
telecomandati dai marziani dovremmo continuare a chiamarli gatti. Ciò segnala
una volta di più l'indipendenza del significato dalle credenze: l'unica
condizione essenziale è che il riferimento venga mantenuto costante, cosa che ci
permette di dire che le parole hanno in ogni caso lo stesso significato.
CERVELLI IN VASCA E
SCETTICISMO
In "Ragione, verità
e storia" Putnam rinforza la sua concezione realistica combattendo esplicitamente lo scetticismo . Nel celebre saggio
"Cervelli in una vasca" egli immagina uno scienziato pazzo che estrae un
cervello umano dal corpo, lo pone in una vasca piena di liquido nutriente e lo
connette a un computer appositamente programmato per simulare la vita del corpo.
Il cervello continua a vivere nell'illusione di avere un corpo, di compiere
esperienze, mentre in realtà tutto questo non è che l'illusione dettata dal
computer dello scienziato. Non si tratta in fondo che della rivisitazione
contemporanea del genio ingannatore che campeggia nelle "Meditazioni
metafisiche" di Cartesio (e che trova una brillante trasposizione
cinematografica nel film "Matrix", del 1999). Chi ci garantisce non solo
l'esistenza della realtà esterna, ma della nostra stessa esistenza? Noi siamo
ciò che crediamo di essere? Come possiamo essere certi di non essere cervelli in
una vasca, manipolati da un qualche scienziato geniale e demente? La risposta di
Putnam si fonda sulla teoria causale del riferimento e
sul vecchio argomento che sosteneva il carattere
autoconfutatorio dello scetticismo . Il punto di partenza di Putnam è
sostenere che se fossimo cervelli in una vasca, pur conducendo una vita
apparentemente "normale" e ritenendo di avere esperienze e sensazioni ordinane,
non potremmo renderci conto di essere cervelli in una vasca, anzi, non saremmo
nemmeno in grado di porci il problema. Se infatti non fossimo persone umane, ma
per l'appunto cervelli in una vasca, avremmo dei significati diversi, cioè le
nostre parole non avrebbero lo stesso riferimento. I termini "tavolo", "sedia" e
anche "cervelli" e "vasca" non sarebbero infatti determinati dai relativi
oggetti mondani, cioè da tavoli, sedie ecc ma semplicemente dalle stimolazioni
provenienti dal computer del gemo pazzo che ci comanda Se noi fossimo cervelli
in una vasca e dicessimo di essere cervelli m una vasca muoveremmo da un'ipotesi
strutturalmente diversa sulla conformazione del mondo, per cui il nostro
enunciato non potrebbe riferirsi a reali cervelli e a reali vasche quali noi
uomini li conosciamo nella nostra esperienza: le espressioni, nonostante la loro
omofonia avrebbero differenti significati e di conseguenza, allorché il cervello
nella vasca dicesse di essere in vasca, non potrebbe significare davvero, come
noi m effetti e in realtà lo intendiamo, di essere un cervello in vasca. Lo
scetticismo è dunque confutato e con esso anche ogni forma di realismo
metafisico- lo scettico e il realista metafisico concordano almeno su questo
punto: l'esistenza di un mondo interamente precostituito e da noi indipendente,
sebbene il primo insista sulla sua inconoscibilità e il secondo aspiri invece a
una teoria corrispondentistica della conoscenza. Al contrario, la teoria del
riferimento a cui Putnam fa appello ci vieta di credere al fatto che
determinate, rappresentazioni mentali si riferiscano in ogni caso a specifiche
cose esterne la cui configurazione è del tutto indipendente dalla nostra mente.
TRA PLURALISMO E DEMOCRAZIA
Gli schemi
concettuali non sono per Putnam a priori com'erano per Kant, sono invece assunti
in base a una scelta che ha a fondamento determinati valori: ogni concezione
della razionalità e della verità si basa comunque sull' etica , perché senza valori non ci sarebbero neppure i fatti.
In "Verità e etica" Putnam spiega che la scienza ha i suoi valori cognitivi come
dimostra l'impossibilità di demarcare rigorosamente enunciati osservativi ed
enunciati teorici. Quando parliamo di giustificazione, di conferma ecc. facciamo
ricorso a dei criteri di accettabilità razionale che non sono pienamente
oggettivi ma dipendono da un giudizio di valore sui canoni che deve possedere
una teoria per essere scientifica. In secondo luogo, la tesi neopositivistica
che contrapponeva nettamente fatti e valori e che insisteva sulla intrinseca non
razionalità dei valori sembra controintuitiva, dal momento che tutti cerchiamo
di produrre una qualche giustificazione del nostro modo di vivere: anche se ogni
giustificazione razionale dovesse alla fine risultare incompleta e non decisiva,
noi non ci sentiamo esonerati dal fornire argomenti per il nostro comportamento.
Si affaccia una ripresa della tesi kantiana sul primato della
ragion pratica su quella Teoretica (e d'altra parte Putnam si rivela
influenzato da autori più o meno kantiani come Dworkin, Habermas, Apel, Hóffe).
Tuttavia, i valori non sono perenni, statici, perché invece seguono la tendenza
al miglioramento che il filosofo riscontra nella società- non è però l'uomo come
singolo individuo che può darsi tali valori e aspirare al miglioramento, perché
soltanto nel dialogo e nel confronto con altri uomini tale tendenza prende
corpo. L'unica via al progresso, alla razionalità, sta allora nella democrazia e
nel pluralismo. A ciò è connessa la visione parzialmente strumentalistica del
ruolo della scienza che emerge in Putnam negli anni Ottanta e che è di chiara
derivazione pragmatistica: la scienza è funzionale, più che alla conoscenza m
se, al miglioramento delle condizioni di vita dell'uomo, all'attuazione di una
situazione ideale di eudemonia. Ma la razionalità non è riducibile a una
concezione tutta strumentale (di tipo weberiano): prima della razionalità
strumentale devono infatti sussistere dei criteri di rilevanza in base ai quali
noi decidiamo quali tipi di problematiche, quali interessi e quali finalità
siano propri delle nostre imprese, fra cui la scienza stessa. Nella terza parte
di "La sfida del realismo" il kantismo viene integrato con una dottrina scettica
che serve a mantenere aperta la prospettiva pluralistica: la conoscenza del bene
oggettivo è inattingibile alla nostra intuizione morale (ciò è il corrispettivo
etico del realismo interno perché depura la nostra conoscenza da pretese
all'assolutezza), ma ciò è un fatto positivo in quanto mantiene libera la
facoltà del giudizio e non introduce aspetti eteronomi nell'etica. Di
conseguenza, non si può che adottare un atteggiamento
pluralistico nei confronti delle posizioni etiche, filosofiche e anche
religiose. In "Conversazioni americane" Putnam evidenzia come la religione non
gli interessi nella dimensione fideistica, ma in quanto importante riflessione
sul limite dell'umano; non a caso l'accentuazione progressiva dell'umanesimo,
avviata da Feuerbach, è culminata nella deificazione dell'uomo che ha prodotto
le società totalitarie dei fascismi e del socialismo reale. Come vengono assunti
allora i valori? Per sfuggire all'alternativa stretta di assolutismo e totale
relativismo come pure all'individualismo solipsistico (ovvero alla scelta
individuale), essi sono giocati su di un equilibrio tra visione del mondo, che
integra conoscenze e scienza ma anche assunzioni metafisiche e teologiche, e
ideali che forniscono una collocazione globale dell'uomo, senza per questo
rinunciare alle tecniche argomentative dell'analisi, cioè una mediazione
continua e progrediente fra individuo e società. La morale
sembra consistere esclusivamente nell'accordo fra la valutazione individuale e
l'approvazione collettiva (esigenza meno forte di quella sviluppata da
Rawls): in ogni caso la concezione più ragionevole della razionalità deve e può
essere sviluppata solo all'interno dei vari sistemi culturali e non ha senso
volerla giudicare situandosene fuori, in un illusorio punto archimedeo.
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