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Risultato 6 per diavoletto Cartesio
group:it.cultura.filosofia |
Augusto
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Angelo Panenero ha scritto nel messaggio <7cp4ek$sh0$1@nslave1.tin.it>...
>
>Caro Loris, considera che per Schopenhauer il solipsismo è follia, ma una
>follia che si combatte solo col buon senso, giacché non esistono
>argomentazioni cogenti contro la risoluzione nella rappresentazione della
>totalità della realtà. Berkeley ne è uscito in un modo che, dopo la
>confutazione kantiana della prova ontologica, è ovviamente improponibile e
>comunque lontanissimo dall'orizzonte della filosofia schopenhaueriana. Che
>l'egoismo teorico sia follia vuol dire lo scetticismo estremo è follia;
>eppure non se ne esce se non sulla base degli indizi di cui è emblematico
>contenitore la storia, oltre che ovviamente il nostro stesso corpo. Ma il
>paradigma indiziario è assai più confacente al dubitare scettico che a un
>filosofo che pretende di penetrare la cosa in sé. Ciao, Angelo.
>
Caro Angelo, nel tuo msg ci sono parecchi spunti molto interessanti e cerco
di essere il più sintetico possibile. Sono d'accordo con te nell'affermare
che "lo scetticismo estremo è follia", nel senso di quel circolo vizioso che
dal dubbio conduce al dubbio del dubbio, in una catena sterile e infinita.
Il dubbio iperbolico non può che divenire metodico e trovare la sua
conclusione nel cogito cartesiano. Ma questo è solo l'inizio del discorso,
perchè, a questo punto, del mondo rimane solo il mondo-per-noi (e forse è
questo che tu intendi per solipsismo) e del mondo-in-sè non ne è più nulla.
Rimangono solo due vie. O cerchiamo, con Cartesio o Bekeley, di garantire il
mondo-in-sè ricorrendo a un buon dio, o dobbiamo rinunciare a tale garanzia
e percorrere altre strade. Come giustamente ricordi, dopo Kant la prima via
non è più percorribile. Tuttavia dei punti fermi che permettono di uscire
dal solipsismo ci sono. Se il diavoletto cartesiano, che ci inganna, ci
inganna TUTTI e SEMPRE allo stesso modo, in fin dei conti non è così
diabolico. Fuor di metafora: se dal cogito cartesiano è possibile sviluppare
un discorso (sulla realtà, o comunque la si voglia chiamare) che possegga le
caratteristiche dell'universalità e comunicabilità, allora il reale possiede
la stessa solidità che ci garantirebbe un qualsiasi dio. Le caratteristiche
di un tale discorso le troviamo nel linguaggio scientifico. I punti fermi,
allora, non sono più da ricercare per via indiziaria, ma sono posti da noi
stessi secondo il vichiano "verum et factum convertuntur", siano essi
assiomi da cui dedurre qualcosa o regole di una vera e propria teoria dei
giochi. E saranno punti fermi (anche se non assoluti) fintanto che
"funzioneranno", saranno cioè in grado non solo di interpretare la "realtà",
ma anche di predisporre gli strumenti tecnici per modificarla. Naturalmente
ciò sottintende un antropocentrismo forse esasperato, ed è ciò che
esattamente intendo. Che la "cosa in sè" sia qualcosa di molto umano o
direttamente accessibile all'uomo, inquadrabile in un contesto più vasto di
quello meramente teoretico (sia essa la volontà di vivere di Schopenhauer,
la volontà di potenza di Nietzsche o la darwiniana lotta per la
sopravvivenza) dopo Kant non è più una presuntuosa pretesa, ma "...la verità
più certa e più semplice, la cui conoscenza viene resa più difficile solo
dalla sua troppa semplicità", per dirla appunto con Schopenhauer.
Quanto alla storia come contenitore metaforico di indizi, non vorrei
equivocare (me ne scuso anticipatamente, ma l'illustre nome di Severino mi
fa un po' sospettare:) pensando che sia la riproposta, assai sofisticata,
della storia come storia astratta delle idee o, meglio, della non-storia
dell'Essere. Ti pongo allora la domanda: dove portano gli indizi? All'Essere
o al Nulla? O non piuttosto al circolo vizioso del detective che esamina,
senza riconoscerle, le sue stesse orme?
Ciao e a presto
Loris.
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