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Liceo Classico "Michelangiolo" di Firenze 4 marzo 1999 PIETRO MONTANI: Sono Pietro Montani, insegno Estetica all'Università La Sapienza di Roma, e oggi parleremo di: Cinema e di estetica e, forse, il compito che abbiamo di fronte è proprio quello di capire un po' meglio perché il cinema, come arte, possa piacere così tanto. Questo sarà il nostro compito. Ora visioneremo una scheda realizzata dalla regia di questa trasmissione che introdurrà alla nostra discussione.
STUDENTESSA: Se considerassimo il cinema sostanzialmente come una inquadratura dell'immaginazione del regista, realizzata tramite i colori che egli ritenga più adatti alla sua interpretazione, (come potrebbe suggerire l'oggetto emblematico scelto per il tema di questa puntata), dove andrebbe a finire il contatto fra l'immaginazione del regista e la realizzazione sulla pellicola e, soprattutto, dove si potrebbe situare il contatto fra l'immaginazione dell'autore, che è una dimensione così intima e personale, e quella del pubblico pubblico? MONTANI: Questa domanda contiene molti problemi. Cercherò di partire dall'ultimo, ossia il problema dell'immaginazione. L'immaginazione, in prima approssimazione, serve a mettere in forma la realtà, ma senza realtà non vi potrebbe essere neanche una forma di immaginazione. Il rapporto tra essi deve essere reciproco, e sono necessari sia l'uno che l'altro. Voi avete scelto, come oggetto, una cornice vuota. Questa "cornice vuota" forse vorrebbe compiere il tentativo di condensare in un'immagine tutti questi problemi, tramite, come ha detto Lei, un inquadramento. Tramite un inquadramento io debbo poter scegliere qualche cosa. Diciamo, questa è un'operazione immaginativa: selezionare un pezzo di realtà. Il quadro, l'inquadramento può essere, fondamentalmente, utile a selezionare. Questa è la mia posizione filosofica al riguardo. Discuteremo dopo fino a che punto questo sia un punto di vista soggettivistico, fino a che punto costringe il soggetto dell'inquadramento a mettersi in gioco. Nel nostro dilemma è necessario distinguere tra una forma di cinema e un'altra. Quando seleziono un "pezzo" di realtà, posso compiere tale selezione solo rispettando due condizioni: che vi sia qualcosa dietro la porta delle mie percezioni, su cui la mia conoscenza va ritagliando, e che vi sia un ritaglio effettuabile sul mondo reale. Ecco perché dovremmo pensare all'immaginazione sempre in questo duplice modo. Non vi sarebbe niente, se non vi fosse un'immagine, che lo porta all'apparenza, che ce la fa vedere, ma non vi sarebbe, parimenti, un'immagine, se non vi fosse qualche cosa che può essere portato all'apparenza. Il gioco, tra queste due parti, è duplice. Credo che la scheda della regia ci abbia proprio messo sulle tracce di questa duplicità. In, che modo il cinema lavora all'interno di questo spazio tra la finzione e la realtà? Lascerei per il momento da parte il problema di quanto, nell'atto creativo cinematografico, possa essere inserito di personale da parte dell'autore e, quindi, quanto possa contare l'aspetto individuale del regista o dello sceneggiatore. Preferirei, (ma naturalmente sarete Voi sollecitarmi, ponendomi le Vostre domande), discutere, piuttosto, dell'aspetto, propriamente formale e strutturale del cinema. Che cosa succede con il cinema posto di fronte alla cultura di cui è espressione rispetto al problema dell'immaginazione? Poi, in un secondo momento vorrei passare al vaglio della nostra analisi il problema del rapporto tra cinema ed espressività artistica. STUDENTESSA: Rifacendomi alla scheda introduttiva, il cinema può essere inteso sia come specchio della realtà ma anche come sogno o invenzione pura. Lei cosa ne pensa dell'opinione di Cesare Zavattini secondo cui il cinema dovrebbe essere inteso come una cronaca diretta della realtà, perché la realtà stessa è piena di poesia e di lirismo? MONTANI: Sono contento del fatto che questa seconda domanda risulti essere più o meno intonata sullo stesso sfondo problematico della prima e credo che continueremo a discutere su questo punto. In fondo Zavattini dice la stessa cosa che abbiamo chiarito qui poco fa. Nella realtà vi sono tantissime cose, moltissimi fenomeni. Ma senza uno strumento che ci permetta di riconoscere e distinguere una cosa dall'altra e che ci consenta di porre in una nuova forma il complesso di cose e fenomeni che incontriamo - uno strumento come, ad esempio, la cornice che avete scelto Voi -, la realtà risulterebbe un magma indifferenziato. Zavattini ha realizzato dei film straordinari assieme a Vittorio de Sica, come Voi saprete. Uno di questi è stato Ladri di biciclette che è un film in cui la storia che viene raccontata da De Sica assieme a Zavattini risulta essere un racconto che non potrebbe fare a meno di raccogliere tutto quello che va raccogliendo nella città di Roma, colta nella propria immediatezza nel primo dopoguerra, in condizioni di straordinaria povertà, sottoposta alla ricostruzione. Tutti e due gli aspetti della realtà del racconto filmico, nell'economia di questo film, furono necessariamente rappresentati insieme. Questo, da un punto di vista metodologico, è la parte più difficile da realizzare ma, forse, nei risultati raggiunti finisce per essere anche il pregio più grande del racconto filmato cinematograficamente, nonché una delle più grandi qualità del cinema, a differenza di quanto accade con altri mezzi espressivi, che forse, potrebbe essere interessante toccare nella nostra trattazione. Come, per esempio, la televisione, o come la realtà virtuale, e la simulazione integrale, di cui oggi tanto si parla. Il cinema ha una qualità specifica, che è quella che, come vedete, sta tornando più volte nelle Vostre domande: l'esistenza in esso di un particolarissimo equilibrio tra ciò che viene inserito nello specchio e ciò che proviene direttamente dalla realtà e, fermo restando che non vi sono specchi senza realtà e che non c'è realtà senza specchi, possiamo trovare che il cinema è questo lavoro interno a questo spazio. STUDENTESSA: Secondo Lei è possibile istituire un rapporto tra il ruolo che il teatro greco aveva nella società antica, per esempio nell'antica Grecia, e il cinema di oggi? MONTANI: Si, certamente! Esiste, naturalmente, ed è rintracciabile tra i due livelli un momento di identificazione molto forte. Noi tutti andiamo al cinema, sprofondiamo nella poltrona e, quando il film viene proiettato, la luce viene spenta. Questo contorno nell'ambiente della sala consente l'attuazione di un meccanismo di identificazione peculiare del cinema. Inoltre, continuando con questo confronto, molto dipenderà, sempre per quanto riguarda il cinema, dalla qualità del film che di volta in volta vedremo, ovvero che siano soddisfatte tutte quelle caratteristiche, non solo estetiche, ma anche etico - politiche, in questo caso, con cui il teatro antico faceva valere la sua istituzione. Noi tutti possiamo immaginarci un ateniese che entra nel teatro la mattina, prima che la rappresentazione sia compiuta e che ha la perfetta sensazione che in quella rappresentazione ne potrebbe andare della sua visione della vita e della morte o delle cose più importanti che gli potrebbero accadere nella sua esistenza. Forse, questo, nelle sale cinematografiche non accade più. Noi oggi, come fruitori, possiamo assumere una posizione assai più smaliziata. Tuttavia, questo momento di abbandono totale o pressoché tale può verificarsi anche nella fruizione del cinema, nella quale diviene importante lasciarsi prendere dall'immagine, attraverso il modo totalmente unico del cinema con il quale l'immagine filmica ci sa prendere. Ma, attenzione: l'immagine - lo abbiamo detto prima, ricordiamolo sempre -, non è soltanto pura immagine. L'immagine è sempre il frutto di un rapporto negoziato con la realtà, per cui l'una non potrebbe esserci senza l'altra. Dunque l'immagine, a questo livello, può prenderci, agire in noi in qualche modo, manifestandoci qualche cosa che potrebbe, forse, anche al di là della pura e semplice identificazione con un personaggio, peraltro inevitabile, costruire un rapporto di apprendimento attraverso il quale si possa uscire dallo spettacolo cambiati, modificati, nella propria recettività. Bene, questa è la catarsi. In un tono minore e fatte le debite proporzioni, questa è la catarsi aristotelica, la catarsi di cui Aristotele parla nella sua Poetica. Si tratta di qualche cosa che il fruitore riesce a cogliere attraverso un processo di forte appartenenza, di forte coinvolgimento con la spettacolarità e con la finzione, ma che, alla fine della finzione, mi presenta la realtà più ricca, diversa da come era prima. Credo il cinema abbia una specifica capacità di lavorare in questo territorio catartico. Per cui, alla Sua domanda, la risposta da dare non può che essere positiva: fatte le debite proporzioni il cinema ci può coinvolgere in modo tale che l'uscita dalla finzione - ma sempre ricordando che finzione è un rapporto con la realtà -, può presentarci una realtà più ricca, più complessa, diversamente vivibile. Questo è anche un elemento da accreditare all'emozione specifica del film. L'emozione è qualche cosa di fondamentale per l'esperienza immaginativa dell'uomo, e il cinema costruisce emozioni. È evidente. È una delle grandi macchine con cui si costruiscono emozioni. L'emozione del cinema è qualcosa che - stiamo parlando del grande cinema naturalmente -, può provocare un effetto di ritorno sulla realtà. Per esempio, il montaggio, che è stata una delle invenzioni tecniche di coinvolgimento dello spettatore più caratteristiche del cinema, fu pensato da Sergeij M. Eijzenstein che, come Voi sapete, è stato uno dei massimi interpreti e poeti del cinema di tutti i tempi, proprio come un meccanismo chiamato a coinvolgerci come utenti dell'immagine, per produrre in noi dei cambiamenti emotivi, sempre in grado di conservare una profonda sfumatura intellettuale e assieme, cognitiva. Il risultato di questa concezione dell'immagine filmica è, quindi, un'emozione che va d'accordo con il pensiero razionale sotteso. Sarebbe interessante vedere una piccola sequenza di un film del 1929, girato, quindi, esattamente settant'anni fa, intitolato Il vecchio e il nuovo, in cui è possibile isolare una sequenza molto famosa, che Eijzenstein ha citato spesso nelle sue opere successive, (Eijzenstein è morto nel '48) ovvero una scena in cui il regista russo tentò di ottenere che lo spettatore venisse totalmente preso dall'immagine tramite una sequenza ricca di suspence. Alla fine questa sequenza, secondo le finalità del regista russo, avrebbe, per l'appunto, dovuto condurre lo spettatore ad una sorta di catarsi, che però fosse, al contempo, un'acquisizione cognitiva nuova da parte dello spettatore. La storia narrata è quella di una comunità contadina, che dalla estrema povertà, attraverso la formazione di un kolkòs, (ovvero di una cooperativa agricola), cerca di progredire, di diventare più produttiva, di aumentare il proprio lavoro. La famosa sequenza di cui vi parlavo rappresenta all'interno del film un momento molto importante da un punto di vista drammaturgico, perché i protagonisti devono scoprire se una macchina industriale che essi hanno comprato, ovvero una scrematrice, necessaria alla produzione del burro, possa funzionare o no. Sono dei contadini molto arretrati. Alcuni di loro sono molto diffidenti nei confronti del nuovo e vengono rappresentati attraverso le facce di vecchioni canuti ed altri particolari umani molto tipici. La sequenza viene costruita a poco a poco, per portarci, attraverso una estrema suspence, fino alla condizione finale, in cui il prodotto realizzato dal kolkòs, un latte ispessito, (che nella copia francese attualmente in circolazione viene presentato da una didascalia, - viene a rappresentare una vera e propria catarsi finale, ottenuta tramite una trasformazione fisica, (la figura del latte che cambia di condizione, diventando panna, e quindi crema) che, a sua volta, corrisponde ad una precisa trasformazione drammaturgica. Il regista ha lavorato con diversi criteri. Prima inquadrando le facce degli attori, poi abbandonando questo livello puramente rappresentativo della presenza dell'attore e lavorando con diversi tipi di materiali, di forme; per esempio, con la luce, con la velocità, con il filo del montaggio, con il rumore. Alla fine dovete pensare che gli schizzi che avete visto erano stati colorati a mano. Quindi c'è questo grande tripudio e così via. Lo spettatore esce da questa rappresentazione con una trasformazione che egli stesso ha dovuto sentire intimamente, corporalmente (perché Ejizenstein pensava che lo spettatore dovesse essere sottoposto ad un processo di elaborazione corporale, fisica, somatica, dal film), assieme ad un cambiamento nel suo pensiero (effettivamente questa comunità rappresentata nel film è cresciuta, è diventata più unita). Alla fine i membri del kolkòs che dapprima erano solo pezzi dispersi, vengono riuniti nel fenomeno catartico. E tutti questi significati il film li ha raccolti in questo piccolo capolavoro di montaggio. Eijzenstein parlava spesso di una cosa molto importante, che dovrete sempre tenere a mente quando andrete al cinema, d'ora in poi (perché potremo supporre che questa chiacchierata possa introdurre qualcosa di nuovo in tutti noi), ovvero della drammaturgia della forma. Secondo lui nel grande cinema non deve lavorare solo l'attore, ma devono lavorare tutti gli elementi della forma: l'inquadratura, il ritmo del montaggio, il colore, la musica. Tutto deve poter lavorare. Ogni elemento del film deve poter cooperare a questa più generale drammaturgia che ha quegli elementi catartici, di cui si è parlato poco fa. Essi sono tutti elementi catartici, ma provengono pur sempre da un'emozione dell'intelligenza. L'emozione dell'intelligenza è ciò cui mira questo genere di cinema. Forse non tutto il cinema, naturalmente. STUDENTESSA: Quindi, professore, si può parlare di cinema come forma d'arte? E, se sì, in quali occasioni? MONTANI: Ma certamente! Credo che il cinema concepibile come forma d'arte, in virtù degli argomenti che abbiamo fin qui toccato, lo dobbiamo, lo possiamo comprendere come quel cinema che riesce a introdurre degli elementi di comprensione più ampia drammatizzandoli, raccontandoli, assieme a degli elementi di comprensione più ampia rispetto a questo rapporto con cui la finzione si lega alla realtà, e con cui l'immaginazione si lega alle cose, spingendo l'immaginazione del fruitore in una direzione un po' particolare, più diffusa. La scheda della regia, che abbiamo visionato insieme, affermava: "Ma in fondo la realtà è tutta immaginazione!". Vi sarete accorti del fatto che io ho cercato di dirVi l'esatto contrario di quella posizione riassumibile nella forma: "è bene che l'immaginazione si possa contrastare con le cose che possiamo discutere in comune". Non sono d'accordo con questo. L'immaginazione è, per l'appunto, un lavoro inesauribile, che noi facciamo sulla realtà. Se non vi fosse realtà, non potrebbe esservi immaginazione. Ebbene, la domanda: "il cinema è arte?" come può essere affrontata? Il cinema è arte, sicuramente, tutte le volte in cui questo rapporto tra realtà e immaginazione, tra finzione e verità viene elaborato in modo tale da permetterci dei progressi nella comprensione di questo problema. Badate, progressi che passino anche per questo veicolo emotivo con cui Ejizenstein ha cercato di convincerci nella sequenza che abbiamo appena questa emozione va messa nel conto della determinazione del visto. Quindi, ecco il cinema come arte. La risposta deve essere sicuramente positiva, senza esitazione. STUDENTESSA: Io vorrei, allora, riproporre la domanda della scheda filmata iniziale: la rappresentazione estetica può aggiungere degli aspetti nuovi a quello che noi consideriamo il mondo reale. MONTANI: Sì. Abbiamo detto proprio questo fin qui. Il mondo reale non sarebbe nulla senza un lavoro immaginativo, che possa mostrarne tutte le pieghe espressivo, tutta la ricchezza. Dunque l'immaginazione non fa che aggiungere questi elementi al mondo. Io non, non vedrei nulla nel mondo, se non collocassi delle forme, se non ritagliassi. Ritornando all'oggetto che avete scelto, (la cornice vuota) esso mi sembra un oggetto molto ben scelto. Anche da un altro punto di vista è ben scelto. Abbiamo detto prima: questo oggetto mette in evidenza un rapporto necessario tra il ritaglio e ciò che è ritagliato, il ritaglio e l'immaginazione, tra ciò che è ritagliato e la realtà. Però esiste anche la possibilità di effettuare un fuori campo. Io ritaglio sempre e solo qualcosa. Tanta altra roba rimane ancora da immaginare. E a questo punto andrebbe esclamato: per fortuna! Più si immagina e più la realtà si arricchisce. La finzione non consuma mai la realtà, ma la restituisce sempre più ricca di quanto fosse prima del proprio intervento. Questo è uno degli elementi su cui il cinema è stato in grado di diventare arte. Eijzenstein la pensava proprio in questo modo. Bisognerebbe, però, giunti a questo punto considerare il fatto che tra i due grandi interpreti del cinema delle origini, Eijzenstein è solo quello più conosciuto tra tutti. L'altro si chiama Dziga Vertov. Egli, contemporaneamente a Eijzenstein, aveva ideato un concetto cinematografico da lui battezzato kino glaz, ovvero il cine occhio. Che cos'è il cine occhio? Il cine occhio -si pensa - è qualche cosa come il nostro documentarismo, cioè un occhio che gira per varie città, riprendendo quello che capita, la realtà presa sul fatto. Vertov aveva una parola d'ordine: la vita va colta sul fatto. Bene, se voi vedete l'unico film compiuto di questo autore, che, guarda un po', è del '29, lo stesso anno de Il Vecchio e il Nuovo, Voi vedrete che non c'è una sola immagine, di quelle riprese da Dziga Vertov, che non sia continuamente ripresa, raddoppiata, triplicata, fatta vedere in una serie di posizioni produttive diverse: mentre viene ripresa, mentre passa in moviola, mentre viene montata, mentre viene proiettata. Come a dire che la realtà è qualche cosa che deve essere costruita cinematograficamente. Ma questo rapporto di costruzione tra la realtà e il cinema, deve diventare esso stesso oggetto del cinema, e così via, ad infinitum. Questo è il modo in cui si arricchisce il mondo. Il mondo non verrà mai totalmente consumato dalla finzione. Se ci pensate un attimo questa è una posizione diametralmente opposta a quella che circola oggi grazie ai concetti di realtà virtuale, simulazione integrale, eccetera. Il realismo del cinema resta come un forte baluardo nei confronti dell'ideologia della simulazione totale. STUDENTESSA: Io vorrei chiederLe se, secondo Lei, il cinema di oggi voglia ancora affrontare il problema della resa della realtà totalmente oppure cerchi, attraverso varie forme espressive, di mascherarla o comunque di far evadere lo spettatore dalla realtà stessa. MONTANI: Bella domanda! La scheda introduttiva ci ha parlato di un tipico film di evasione dalla realtà, Fino alla fine del mondo di Wim Wenders, che Voi conoscete, perché è un autore molto popolare presso i giovani, Wim Wenders ultimamente - sarà in crisi lui, sarà in crisi la realtà stessa, non lo sappiamo ancora bene - ha diretto una serie di film in cui la risposta è negativa. Non ce la facciamo più ad acchiappare la realtà, essa ci sfugge. Lei l'ha visto Lisbon's story, per esempio? Qualcuno di Voi l'ha visto? Andatelo a vedere. È un film, tra l'altro, film dedicato a Dziga Vertov, l'autore di cui ho appena parlato. In esso viene presentata una vera e propria rinuncia a rimettere il cinema in contatto con la realtà. Domanda: perché accade questo? Perché alcuni cineasti, Wenders non è il solo (poi Vi farò anche i nomi di altri autori), che avvertono questa crisi, la quale non è una crisi di espressività, perché appunto riguarda la nostra condizione esistenziale, è qualche cosa di realmente epocale, che riguarda tutto il mondo, hanno come compiuto una rinuncia. Tra questi, Wenders, dà una risposta: perché non ce la facciamo più a rimettere le mani sulla realtà nel modo in cui abbiamo detto fin qui questa cosa? Perché la realtà è letteralmente infestata di immagini. Il film Fino alla fine del mondo ce lo mostra in modo esemplare. Ma molti altri grandi registi contemporanei arrivano a questa conclusione. Per esempio Theo Angelopulos, in un film intitolato Lo sguardo di Ulisse, giunge, più o meno, alla stessa conclusione. È un film che va a ricercare lo sguardo originario del cinema, quando il mondo era ancora disponibile ad essere ripreso in questo scambio virtuoso tra la forma e le cose. Invece l'inflazione dell'immagine cui siamo sottoposti realtà virtuale, televisione, (pur parlando dalla televisione, contro la televisione, non mi sembra di fare nulla di incoerente o di ingiusto al riguardo) tutto questo rende più difficile, per alcuni cineasti, il raggiungimento di quell'osmosi che è necessaria all'espressione artistica cinematografica. Tuttavia è interessante notare come questa difficoltà sia diventata l'oggetto stesso di alcuni film, cioè che alcuni film raccontino per l'appunto questa difficoltà. Forse qui si può toccare rapidissimamente un altro punto interessante, che però lascio alla Vostra meditazione, perché sarà difficile che se ne possa parlare stamattina. Ejizenstein ebbe, a un certo punto, intorno alla metà degli anni Trenta, l'idea che il cinema audiovisivo, che si stava formando in quel periodo (il cinema audiovisivo, il cosiddetto sonoro, compare tra la fine degli anni venti si pensi al Cantante di Jazz con Al Jolson e l'inizio degli anni Trenta) audiovisivo fosse la forma d'arte destinata a riprendere, per risolverlo, il problema della narrazione. Disse Ejizenstein: "Lì dove si è fermato James Joyce con Ulysses, cioè l'ultimo grande capolavoro di quella linea di narrazione, di racconto, che comincia con l'epica antica e si chiude con l'Ulisse/Leopold Bloom, linea che guarda un po' dall'Odissea di Omero all'Ulisse di Joyce, romanzo sperimentale per eccellenza, lì deve ricominciare il cinema". Il cinema deve raccogliere questa fiaccola, lasciata dalla narrazione, dalla cultura della narrazione, che rappresenta assieme una sfida. Il cinema deve raccogliere questo obbiettivo. Dunque certo c'è crisi, ma il cinema la può raccontare. STUDENTESSA: Professore, abbiamo parlato di cinema come forma d'arte e della sua azione catartica. Vorrei chiederLe: che azione, o che tipo di funzione vengono a svolgere gli attori e i registi di fronte a questa modalità catartica in qualche modo implicita nel loro mestiere? MONTANI: Credo che questo quesito bisognerebbe porlo direttamente a loro. Non lo so. Francamente mi sembra un tipo di questione che investe direttamente, dall'interno, la produzione di un film. Vero è che il cinema - e vede come torniamo di nuovo al nostro problema! - molto spesso è stato condotto, nonché attratto dall'idea di autorappresentarsi. Ecco perché, allora, immediatamente, possono tornarci in mente moltissimi film, nei quali, per l'appunto, il tema del film può essere proprio la messa a fuoco di ciò che capita a un regista o ad un attore durante la lavorazione di un film. Wim Wenders, che abbiamo ricordato prima, è autore, da questo punto di vista, di un film molto importante: Lo stato delle cose, che Voi, forse, avrete visto. È sufficiente pensare, altrimenti, ad un'opera come 8 e 1/2 di Fellini. In particolare il tema dell'attore è molto forte in un film di Abel Ferrara, che forse non conoscete, intitolato: Snakes eyes, ovvero Occhi di serpente, interamente dedicato alla descrizione di quel che può capitare ad un attore mentre recita un film. Questo è l'antico problema del limite tra la personalità dell'attore e l'identificazione con il personaggio. Fino a dove l'attore può identificarsi con il personaggio da lui interpretato, prendendone le distanze entrando all'interno di essi? Io credo che la Sua domanda, se non è una domanda troppo specifica, possa rientrare all'interno di questo quadro generale, che, in realtà, come vedete, è stato un po' delineato da tutta questa nostra discussione e del fatto che il cinema abbia la tendenza di tematizzare il proprio rapporto con il mondo. È dunque questo specifico realismo del cinema la prima proprietà di questa espressione artistica che necessita una salvaguardia, soprattutto dal punto di vista dell'interpretazione, della prestazione dell'attore e così via. Vi sono dei film straordinari su questo tema. Pensate a Zio Vania nella 43° strada, di Louis Malle, un film straordinario, in cui viene rappresentato un gruppo di attori, che sta mettendo in scena lo Zio Vania di Anton Cechov e lo spettatore viene posto nell'impossibilità - o meglio al termine finisce per non accorgersene totalmente - di stabilire i confini tra la loro vita personale e quella dello spettacolo, perché essi stanno facendo le prove. C'è una scena bellissima, nel film di Malle, in cui per molto tempo lo spettatore si convince di avere di fronte un attore che sta recitando la parte di sé stesso, parlando di sé, per poi accorgersi che mentre l'attore sta parlando, egli, come spettatore, sta guardando un attore, che sta già interpretando un personaggio, un personaggio della pièce di Cechov. Questi giochi insomma costituiscono il materiale classico del cinema come arte, e io spero di essere riuscito, in questo modo, a rispondere alle altre Vostre domande prendendole insieme. STUDENTESSA: Lei prima ha parlato del cinema come finzione, ma , allo stesso tempo, come di un qualcosa, comunque, in grado di mantenere uno stretto rapporto con la realtà. Contemporaneamente lei ha sottolineato la caratteristica peculiare del cinema inquadrandolo come mezzo in grado di favorire l'evasione dalla realtà. Come è possibile conciliare queste due posizioni, forse soltanto apparentemente così opposte? MONTANI: Non solo si possono conciliare, esse si debbono conciliare. Intanto il frutto della finzione cinematografica, quella artistica, non è mai una pura evasione. È chiaro che, quando noi si sediamo in poltrona, si inaugura un altro tipo di rapporto. Chiudiamo certe finestre sulla realtà circostante, tenendone aperte soltanto alcune. No? Non è evasione, c'è chiusura, c'è un mondo chiuso. È il mondo della finzione, in cui noi siamo completamente coinvolti, coinvolti anche somaticamente. Pensate a quanto può fare il cinema per modificare il Vostro stato somatico! Qual è la cosa che Vi viene immediatamente in mente pensando a questo aspetto del cinema? Per esempio: al cinema si piange. Dirò di più: si deve piangere nel cinema! Non Vi vergognate mai di piangere in un cinema! Nel cinema bisogna piangere. Si vede Benigni e si piange. Ebbene: che si pianga! Piangere vuol dire cambiare proprio atteggiamento di fronte ad un'opera. L'atteggiamento opposto, di fronte ad una medesima sollecitazione, rappresenta una chiusura. Ma al tempo stesso rappresenta l'interno di mondo chiuso, perché io non sto piangendo per strada, sto piangendo lì, all'interno di una sala, di fronte ad uno schermo, che assieme al film rappresentano un mondo chiuso. Ma quel mondo chiuso, all'uscita, quando cala il sipario, e si aprono le porte, è qualche cosa che mi restituisce un rapporto più ricco con la realtà. Quando, dopo aver visto La vita è bella - facciamo un po' di pubblicità a Roberto Benigni, che ha vinto il suo Oscar -, all'uscita dal cinema, io, spettatore, resto colpito ripensandoci profondamente, da un atto di vitalità eroica e tenera assieme, resa possibile anche all'interno di una reclusione totale, un campo di concentramento, ebbene, il film mi posto di fronte al momento della choix, tramite un atto di vitalità. Questa è la profonda novità che mi ha regalato quel film. Il finale di quel film è, lo ripeto, uno straordinario atto di vitalità che Benigni compie per ritrovare la moglie, (quando potrebbe benissimo non farlo, perché in realtà, ormai è chiaro che gli Alleati stanno per arrivare e che il momento della liberazione dalla prigionia è vicino) che io posso ritrovare per strada nella vita, nella mia vita di tutti i giorni. Resta il fatto, però, che esso mi è stato donato da un film. Mi è stato donato all'interno di un circolo, in questo, momentaneamente chiuso, in questo circolo della finzione. Vedete che la finzione deve essere sempre rapportata alle cose, alla realtà circostante. Perché le cose reali sono così importanti e belle. Il cinema, volendo concludere con un'osservazione, è bello perché sa circondarsi di una varietà di cose belle, oltre ad essere una forma artistica bella di per sé. STUDENTESSA: Io Le vorrei chiedere un commento riguardo ad un film come The Truman show, un'opera in cui i confini tra finzione e realtà vengono confusi in modo diretto e fortissimo. MONTANI: Portare come esempio The Truman show di Peter Weir mi sembra che, come si suol dire, cada proprio a fagiuolo. Un commento? Vorrei dare molti commenti. Primo commento, riguardante il problema che abbiamo sollevato un attimo fa, il problema della chiusura nel circolo della finzione: Truman (interpretato da Jim Carrey) riesce a fuggire da quella falsa rappresentazione costruitagli intorno, e spacciatagli da tutti come l'unica realtà. The Truman show, diciamo, in termini più generali, tende a confermare questa proposizione molto ampia, che abbiamo riscontrato fin dalla prima domanda, e cioè che il cinema è particolarmente interessato a lavorare su questo rapporto: finzione e realtà. Bene cosa c'è in The Truman show? Partiamo dalla scena finale. Ve la ricordate? In essa Truman, preso dall'ansia e dalla disperazione della propria fuga, va a sbattere con la sua barchetta a vela contro qualcosa, un ostacolo, che egli credeva essere l'orizzonte - non a caso l'orizzonte è la cosa più grande che c'è - e che, invece, sono i confini del circolo della finzione di cui è prigioniero. Ebbene in questo mondo chiuso e totalmente falso, ovvero dotato di una propria, intima, coerente realtà, che non è la vera realtà, esiste una piccola porta nera. Che cos'è quella porticina nera? Essa è esattamente il luogo in cui la finzione viene rimessa in contatto con qualcosa di completamente diverso. Truman non sa che cosa sia questo altro, però gli va incontro lo stesso. Perché ci va? Ci va, perché la sua immaginazione e la sua voglia di vivere si sono rimessi in movimento. La sua immaginazione si è rimessa in movimento perché ha saputo ristabilire i ruoli, in cui giocano le proprie rispettive parti, del funzionale e del reale, quelle parti che, dentro l'orrendo e avvilente mondo della sua finzione non esistevano più. Allora, giunti a questo punto, dovremmo poter dire: quel mondo, (ne abbiamo visti tanti nel cinema, ma questo è solo uno dei tanti, uno dei più ragguardevoli, uno dei più rappresentativi), il mondo di The Truman show, quell'universo chiuso, manipolato tramite assurdi marchingegni, le telecamere, tutti diretti da quel personaggio, una specie di divinità, (il regista/dio), che tiene tutto sotto il controllo del proprio occhio, (un occhio esterno al mondo, che controlla il mondo, quel mondo chiuso), essendo un mondo saturo di simulacri, è un mondo in cui è impossibile immaginare alcunché, perché in esso non esiste la vera realtà. Questo poiché l'immaginazione umana è fatta per poter lavorare solo a partire dalle cose reali, usandole come ingrediente di base, per poter poi estrapolare cose del tutto immaginifiche e irreali. L'immaginazione si riapre nell'unico momento in cui Truman pensa: "Ebbene, forse c'è dell'altro. Forse questo che io credevo essere il mondo, in realtà è un oggetto chiuso". Una porticina si aprirà e forse, di là da essa, ci sarà dell'altro. Il film finisce così. In verità c'è qualche frangiatura, in quella scena finale, perché alla fine lo raggiungerà una ragazza che lo sta già aspettando di fuori, ma, comunque, è anche bene che ci sia una ragazza che lo aspetta fuori… STUDENTESSA: Lei ha citato Lisbon's Story come esempio di una certa sfiducia nella realtà, da parte di Wenders, nell'analisi da lui compiuta, nel suo cinema, sul rapporto fra immaginazione e realtà. A me sembra, però, che quel film si chiuda proprio con la riscoperta del rapporto tra soggetto e realtà da un punto di vista visivo. MONTANI: Sì, certo. Però va detto anche che la chiusura di quel film risulta essere un po' consolatoria, nonché un po' nostalgica, come a voler dire: la realtà è questa. Tuttavia, Lei, che visto questo film, si ricorderà che c'è quella macchina da presa, che va in giro per le strade di Lisbona, montata su un cavalletto. Ebbene, quella macchina da presa è una citazione di Tziga Vertov, è proprio la macchina del kino glaz, de L'uomo con la macchina da presa. Quindi, si tratta di una fiducia un po' nostalgica. Tuttavia, ripensateci, gli aspetti positivi di quel film non sono mai visivi, sono soprattutto acustici. Pensateci un attimo. È un rumorista il protagonista di quel film. Per cui la realtà, che è stata inquinata dall'immagine, si riprende con il sonoro. Vi posso citare un altro film straordinario, straordinario, in cui questa cosa è portata agli estremi limiti? È Blue di Derek Jarman. Quest'opera è un film di settanta minuti, in cui noi vediamo uno schermo blu e niente altro. Attenzione, non è solo questo! Noi non siamo, poi, così masochisti. Sotto questo schermo blu viene elaborata una straordinaria commistione di voci, musiche, silenzi, dialoghi. E Voi lo guardate, lo guardate per settanta minuti come un film. Lì l'immagine è stata azzerata proprio proprio per spiazzare lo spettatore rispetto all'invasività dell'immagine visiva nella nostra cultura costringendo il fruitore a lavorare con le orecchie. Domanda: in tutto questo resta assente l'immagine visiva, ma l'immaginazione dove va a finire? Non va a finire da nessuna parte! E ne è eccome! In The Truman show avviene esattamente il contrario. Prima che Truman ce la faccia a fuggire, il mondo è dominato dalle immagini e l'immaginazione è assente, perché manca la realtà su cui immaginare. Questo è il punto. Non ci sono altre domande? STUDENTE: Abbiamo trovato un sito e una pagina web (una recensione) sul film The Truman show - ne stavamo parlando proprio ora -, dal quale abbiamo tratto delle immagini interessanti di questo film. Da queste immagini possiamo ricavare quanto effettivamente sia equivoco e falso quello che noi vediamo sullo schermo. Questa qui, la prima, è un'immagine del set, come esso appariva veramente. Questa è l'intelaiatura digitale per i piani alti degli edifici. E questo è come è apparso sullo schermo. Però oltre a questo problema a me sembra che il film di Weir ponga in fondo la stessa domanda lasciata in sospeso dalla scheda introduttiva, ovvero: cos'è la realtà? MONTANI: Sì, certo. La realtà è quella che sta là
fuori, fuori dalle nostre teste. In The Truman show appare
in modo così radicale perché lo spettatore vive per tutto il film in un
mondo integralmente simulacrale. Un mondo del genere, naturalmente, non è
realizzabile nella quotidianità. Ma si può realizzare in un film. È un
mondo totalmente simulacrale. Dunque la realtà è stata, per tutto il film,
sempre al di fuori di esso. Il film è interessante, infine, perché ci
presenta una figura di personaggio che è tutt'uno con una soluzione
formale piuttosto elegante, (la soluzione tramite la quale la realtà, che
è rimasta fuori dalla visione di Truman per tutto il film, quell'incognito
in cui si inoltra Truman alla fine viene rimessa in contatto con quel
mondo falso). È, infatti, interessante notare che, mentre Truman esce dal
mondo simulacrale, il regista, questo piccolo dio dell'intero show,
vi rimane dentro. È lui, alla fine, colui che l'ha costruito, a
rimanerne prigioniero, perché Truman è scappato, abbandonandolo! (Un sito consigliato sull'argomento: http://www.cinemastudio.com/) Trasmissioni sul tema Guardare il mondo
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