Franco Prattico

Nel mondo della conoscenza
tutto è artificio, perfino la realtà

Il linguaggio, la matematica, i concetti della scienza sono una forma di ricostruzione simbolica del mondo esterno che possiamo già definire "virtuale". Oggi, le nuove tecnologie permettono di estendere a tutti i nostri sensi questa possibilità di simulazione che si è dimostrata un immenso vantaggio evolutivo. Aumenta così la capacità umana di comprendere e manipolare la realtà.

«Noi siamo fatti della stessa stoffa di cui sono fatti i sogni, e la nostra vita è circondata da un sonno...» confessa Prospero, personaggio shakespeariano. Magiche creature di sogno, certo, fantasmi della fantasia. Ma forse nei versi di William Shakespeare c'è la profetica intuizione di qualcosa che non è vera soltanto nel mondo magico della Tempesta shakespeariana. Quasi sollevando il sipario su di un'inedita rappresentazione del possibile, oggi l'accoppiata tra computer, sensori, programmi di simulazione, potenza di elaborazione e fantasia creatrice sta improvvisamente dilatando l'area del reale. Mai come in quest'epoca l'uomo ha avuto la possibilità di inventare realtà, sia pure "virtuale", di annullare alla nostra percezione ogni vincolo fisico: come appunto accade nei sogni. E quindi, sia pure fantasmaticamente, realizzarli1.
Ma di quale "stoffa" sono fatti i nostri sogni? Oggi sappiamo che essi, almeno in gran parte, rappresentano la proiezione "condensata" e spesso mascherata dei nostri desideri e dei nostri terrori. Non sappiamo come e cosa sognano gli altri animali superiori, un cane o una tigre. Ma nei nostri sogni sono certamente racchiusi il dramma e la sfida che, da quando ci siamo costituiti come specie, hanno dominato la nostra evoluzione: il conflitto tra i nostri bisogni, le nostre aspirazioni, le speranze che coltiviamo e quella entità minacciosa e mai del tutto raggiungibile che chiamiamo realtà, materia, mondo; e l'ambizione di riuscire a piegarla ai nostri fini.

In definitiva il cammino dell'uomo è una lunga, a volte tortuosa strada per sostituire al caos incontrollabile della "cosa in sé" qualcosa che possiamo dominare e modificare; sostituendo così all'incubo il sogno felice. La strada che da allora abbiamo intrapresa per il controllo del mondo passa attraverso la manipolazione della realtà, ma anche attraverso la sua ricostruzione. Ossia, la progressiva sostituzione dei dati percepiti dal mondo esterno con un sistema di simboli, la cui efficacia è misurata in modo crescente dal loro incastrarsi reciproco, fino a dar luogo a una immagine del mondo che combaci in pratica con i nostri desideri e le nostre richieste. Questo avviene probabilmente per ogni vivente, e con maggior forza per gli animali superiori. Ma l'uomo ha una marcia in più: il linguaggio.
Perciò il primo esempio di "realtà virtuale", di un processo di simbolizzazione, cioè, che a un "reale esteso" e in sé incontrollabile sostituisca un universo valido all'interno di un sistema di riferimenti costituito da noi, sono appunto i linguaggi. Progressivamente, la parola si è sostituita al mondo esterno. Quando parliamo di "oggetti della conoscenza", crediamo di parlare di qualcosa che esiste per sé, al di là delle nostre proiezioni. Ma in realtà già i nostri antenati, nel momento in cui fissavano nel linguaggio concetti generali (albero, vento, ma anche Dio, spirito, ecc), compivano una simulazione: interna quindi al linguaggio, ma che dispiegava una formidabile capacità adattativa (darwiniana), che trasferiva nella nostra mente (nel nostro linguaggio) le proprietà che credevamo di isolare e definire nel mondo reale. Ad esempio sostituivano la infinita (o quasi) varietà del mondo fisico, vegetale o animale, con alcuni suoni convenzionalmente stabiliti, che esercitavano la loro efficacia all'interno della comunità umana, anche se certamente non contenevano l'essenza albero o foglia se non nella cultura, ossia nella creazione artificiale di mondo, ma che ne rendevano possibile la (collettiva)2 manipolazione.

Il linguaggio si sostituisce così al caos, alla sterminata popolazione di oggetti singoli, la rappresentazione simbolica delle loro relazioni reciproche e del loro rapporto con noi. Astraendo costruiamo generalità: e queste si costituiscono come la "realtà" entro cui si sviluppa la storia della nostra specie. E' un mondo già virtuale, che generalizza, convenzionalizza e stereotipizza le nostre esperienze percettive, e su questi frammenti costruisce quella rappresentazione - che non condividiamo con nessun altro vivente - che chiamiamo realtà. L'esempio più sconvolgente ce lo fornisce proprio il linguaggio più potente che l'uomo abbia elaborato nel corso della sua esplorazione del mondo, la matematica. Vale a dire la riduzione a quantità, misura, proporzioni e calcolo (e le loro connessioni logiche) della caotica varietà del possibile (e anche dell'impossibile).
Quella che Wigner chiama «la irragionevole efficacia delle matematiche», la loro capacità di corrispondere e anticipare i comportamenti della materia e la dinamica dei fenomeni e dei processi, è la più drammatica dimostrazione della potenza e della efficacia del processo di simbolizzazione del mondo che avviene nella mente umana, la sostituzione del caos con un ordine "umano". E' illuminante a tale proposito l'ipotesi di alcuni teorici della intelligenza artificiale, secondo cui i processi cerebrali sottesi alle funzioni mentali sarebbero algoritmi di calcolo. L'ordine che scaturisce dalle descrizioni (e anticipazioni) matematiche del reale - che ha reso tanto potente la ricostruzione scientifica del mondo - avrebbe così il suo punto di partenza nelle modalità di funzionamento della nostra mente3.

La scienza matematizzata si pone quindi come totale simulazione, ricostruzione intellettuale del reale, virtualità: tanto più efficace quanto più il nostro mondo non è più quella natura di cui ci parlano i nostri sensi (qualcosa che in realtà non sappiamo cosa sia...) ma cultura. Viviamo cioè all'interno del terzo mondo di Popper (il mondo appunto della cultura): e i risultati "oggettivi" sono oggettivi in primo luogo nel linguaggio. Ricondurre le nostre esplorazioni al mondo fisico comporta una serie di operazioni di misura, di astrazione e di "denominazione", di inclusione cioè all'interno di un linguaggio: che cos'è un elettrone, al di fuori delle operazioni che descrivono carica, momento, massa, spin, ossia oggetti non rappresentabili ai nostri sensi? Su quella base, però, la nostra capacità di manipolare (nel senso di trasformare) e "conoscere" il mondo fisico si è enormemente estesa. Possiamo parlare oggi del cosmo, e addirittura almeno in parte esplorarlo, misurando e decifrando qualcosa che non dice nulla all'apparato percettivo di cui siamo dotati, individuando e misurando segnali elettromagnetici, compresi quelli invisibili ai nostri occhi, come le radiazioni infrarosse, ultraviolette, X, e domani - si spera - le fluttuazioni del campo gravitazionale. La divaricazione col mondo dei sensi "ingenui" è sempre maggiore; la potenza dell'astrazione ci restituisce una realtà sulla quale la nostra manipolazione diviene sempre più efficace. Al mondo della percezione abbiamo sostituito la misurazione dell'invisibile.

Ma la sostituzione della percezione dei nostri sensi con la misurabilità costituisce un passo avanti nella distruzione della immagine "ingenua" del mondo, quella che ci aveva accompagnati e guidati nel corso dell'evoluzione. Oggi sappiamo che la rappresentazione del mondo fornita dai nostri sensi, che è anche quella a cui faceva riferimento Aristotele, (la fisica aristotelica continua a essere la base sulla quale percepiamo "istintivamente" il mondo, anche se scientificamente acculturati4) non corrisponde alle informazioni catturate dai nostri strumenti di misura e all'analisi scientifica dei fenomeni che soggiacciono alla percezione. I nostri sensi ci ingannano. Sappiamo ad esempio che il nostro apparato visivo, pur nella sua perfezione, ci restituisce soltanto una parte, anche piuttosto modesta, della informazione elettromagnetica che ci circonda. Sappiamo anche che quelle parziali informazioni captate dai nostri recettori non avrebbero significato né utilità se non le ricostruissimo, aggiustassimo, manipolassimo in quella parte della corteccia cerebrale che è deputata alla visione. Una ricostruzione che non è meccanica o automatica, perché a essa si intrecciano tracce mnestiche, preferenze inconsce, selezioni e ricostruzioni e le aspettative costruite dalla cultura di cui facciamo parte (sotto questo aspetto i miracoli, i fantasmi, le magie erano "vere" per coloro che vivevano in un contesto culturale ove tali manifestazioni erano legittime o possibili).
Insomma, l'informazione che viene dai nostri sensi ed è elaborata dal nostro cervello è già in un certo senso virtuale: prodotto - certo raffinatissimo - della selezione naturale, che ha premiato quelle forme di reazione al mondo che garantivano maggiore efficacia. Se improvvisamente i nostri sensi ci restituissero il mondo "come è" (e com'è, in effetti, non lo sapremo mai), probabilmente ci sarebbe impossibile adeguarci a esso. Altri nobili mammiferi - animali superiori - hanno gamme di informazioni superiori o inferiori alle nostre senza per questo essere, nel contesto, meno efficaci evolutivamente di noi.

Ma se il mondo dei sensi ci inganna, noi inganniamo lui: nel senso che sostituiamo al magma indecifrabile del reale, della cosa in sé, una serie di rappresentazioni selezionate che l'evoluzione ci ha garantito efficaci (altrimenti non ci saremmo). E' quindi un processo antichissimo ma che soltanto adesso emerge in tutta la sua chiarezza, dal momento che l'uomo s'è messo in grado di costruire strumenti che da una parte - sostituendo alla percezione la misura - penetrano nell'invisibile, denudano il reale dalle sue apparenze illusorie, demistificano l'illusione dei sensi. Dall'altra, però, ci mettono in grado di "ingannare" i nostri sensi, prolungare la metafora del linguaggio, costruendo rappresentazioni dirette a loro, sfruttando la loro stessa "ingenuità". Ne sono esempi tra i tanti le immagini, in sé bidimensionali e statiche, del cinema e della televisione, che percepiamo come tridimensionali e in movimento, la distruzione del concetto di lontananza resa possibile dal telefono, che trascende la percezione localistica della distanza e, trasformando un segnale elettromagnetico in voce, illude su una presenza, una contiguità fantasmatica.
Proprio fondandoci su questi "inganni" dei sensi costruiamo nuove rappresentazioni, sempre più ricche ed estese. Il mondo virtuale (telefono, televisione, cinema e ora, in modo sempre più massiccio, il computer) non è perciò per noi meno reale di un tramonto: opera attraverso gli inganni del nostro sistema percettivo5, come uno spettacolo di natura, ma ci consente di simulare la percezione "naturale" del mondo esterno.

In un certo senso, ci addestra a muoverci in una realtà più ampia: dalle simulazioni di volo per addestrare i piloti fino alla rappresentazione numerica sul computer di fenomeni e processi la cui dinamica ed evoluzione vogliamo conoscere, inserendo e facendo agire tutte le variabili di cui dobbiamo tener conto. Per giungere a quella che viene appunto definita "realtà" - che è poi una costruzione soltanto umana, una ragnatela che non avrebbe nessun valore adattativo per una specie che non fosse provvista di linguaggio e quindi di capacità di generalizzazione e di astrazione.
Questa stessa conoscenza, d'altra parte, ci mette in grado non soltanto di rappresentarlo, il reale (ad esempio sul video di un computer), ma anche di estendere - sia pure fittiziamente - la potenza della nostra interazione con esso utilizzando appunto la "ingenuità" dei nostri sensi. Il confine tra reale e virtuale si attenua mano a mano che la nostra capacità di manipolazione dei fenomeni aumenta. Il computer completa la possibilità di rappresentazioni "virtuali" nel loro divenire: la simulazione non appartiene più solo al linguaggio, parla nella lingua di tutti i sensi. Non è un inganno maggiore di quello che ci portiamo addosso da quando ci siamo costituiti come specie: la differenza è che possiamo progettare e calarci in questi simulacri di realtà sapendo che sono simulacri, ma anche che il loro grado di realtà percettiva può non essere inferiore a quella fornita dai nostri sensi demistificati. Se, in un esperimento di realtà virtuale, provo la sensazione di volare senza ali, e questa sensazione investe tutto il mio sistema percettivo (come accade in certi sogni), che differenza c'è se volassi realmente?
Costruiamo perciò i nostri sogni, la nostra realtà: che questa sia frutto dell'inganno dei sensi o dei "trucchi" che possiamo elaborare sulla base della nostra esplorazione della materia, poco importa alla fine. Il reale, l'origine delle impressioni dei nostri sensi, rimane evanescente come l'Ariel di Shakespeare, catturabile solo (in parte) nelle astratte rappresentazioni della scienza matematizzata. Senza di queste rimarremmo, come Ariel, immersi nell'immenso, impenetrabile sonno dell'Universo.


Note

1 M. W. Krueger, Realtà artificiale, Addison-Wesley, Milano, 1992, pag 225.

2 G. Cavallini, La costruzione probabilistica della realtà (in corso di pubblicazione: Antitesi, Napoli, pagg 41 segg).

3 P. Zellini, La ribellione del numero, Adelphi, Milano, 1995, pagg 90 segg.

4 P. Bozzi, Fisica ingenua, Garzanti, Milano, 1990, pagg 29-30.

5 Vedi in proposito Andrea Paoloni e Paolo Talone, I limiti della percezione umana sono indispensabili per imitarla, in questo numero di Telèma.