Intervista con
Derrick De
Kerckhove
di Pietro
Zullino
L'erede di McLuhan non ha dubbi: la rete è un autentico strumento di
progresso, una protesi della nostra mente e del nostro sistema nervoso, il
deposito della memoria globale. Ma è anche la chiave per entrare nel futuro e
prepararsi a viverlo. Si tratta di opportunità straordinarie, e
reali.
«Con le manipolazioni del codice genetico ci siamo già
sottratti all'ordine della natura», scriveva nel 1990 Derrick De Kerckhove, che
ha sempre nutrito una illimitata fiducia nelle superiori capacità del pensiero
umano: «Possiamo ora sfuggire all'ordine che vuole imporci la macchina? Come? La
risposta è chiara, anche se non semplice: invece di temere le nostre macchine
bisogna superarle, cioè assorbirle all'interno del nostro universo psicologico
personale. I sistemi esperti non faranno di Faust un imbecille, ma egli dovrà
recuperarli all'interno del proprio corpo, perché il vero problema di Faust non
è di aver consacrato la propria vita ai problemi dello spirito, ma di aver perso
il contatto con il proprio corpo, come qualsiasi altro intellettuale».
In
sette anni il progresso tecnologico ha rivoluzionato molte volte l'esistente
informatico, ma l'analisi martellante dell'allievo di McLuhan non è mai uscita
dal suo solco, e quel che deduceva a proposito della televisione e del computer
ora lo estende alle reti: l'uomo sarà più forte delle macchine perché saprà
interiorizzare la multimedialità e volgerla a suo vantaggio mediante nuovi
organi mentali creati da funzioni necessitanti.
Non fu sempre così? Forse
che l'uomo dei geroglifici non aveva già superato in capacità di pensiero l'uomo
dei pittogrammi? E i popoli che adottarono l'alfabeto, «il miglior programma mai
inventato per far lavorare la materia grigia», non conseguirono forse un
vantaggio decisivo sui popoli che si attardavano in forme di scrittura
limitative? E nell'universo degli alfabeti non è stato quello greco-latino, per
la sua maggior completezza e versatilità, a promuovere e sviluppare la
conoscenza anche scientifica? «McLuhan ha sottolineato che fu l'alfabeto
fonetico, non un alfabeto qualsiasi, a provocare quella rivoluzione psicologica
il cui risultato è stato l'uomo occidentale», ricorda De Kerckhove. Però un solo
protagonista attraversava da eroe prometeico tutte queste fasi, l'essere
umano.
Cinquecento anni fa l'uomo ha affrontato, cambiando le proprie
attitudini mentali e rimanendo tuttavia se stesso, la gigantesca crisi
esistenziale prodotta dall'invenzione della stampa; oggi è alle prese con gli
effetti a catena della scoperta dell'elettricità, ben più difficili da
interiorizzare (telegrafo, cinema, radio, televisione, computer, realtà
virtuali, reti informatiche sono tutti figli dell'elettricità).
In questa
intervista a Telèma, il grande studioso delle ricadute neurosociali e delle
modificazioni antropologiche provocate dalle nuove tecnologie conferma e
sviluppa ulteriormente la sua tesi. Non dobbiamo aver paura delle macchine che
esaltano tumultuosamente l'informazione, dice. Esse vanno considerate come
estensioni del nostro sistema nervoso, come organi artificiali che ci
permetteranno, poco a poco, di acquisire una "sensibilità planetaria". Cioè
quella virtù che, sola, potrà rimediare agli scompensi di uno sviluppo economico
disomogeneo e ormai insostenibile, evitandoci l'apocalisse. A condizione
che...
Già, a quali condizioni, professor De Kerckhove? In che modo,
non diciamo Faust o "qualsiasi altro intellettuale", ma l'uomo della strada
(anzi l'uomo della stanza, perché se ne rimane al chiuso a navigare in Internet,
spesso con la sensazione di fallire, di sprecare il suo tempo) può salvare
l'anima: forse coltivando l'idea di essere una molecola, sia pur infinitesimale
e inconsapevole, di un nuovo Rinascimento?
No, questo sarebbe un
approccio sbagliato. Il Rinascimento viene una volta sola; viene quando
l'umanità ri-scopre l'organizzazione mentale e i valori umanistici che erano
stati della Grecia e di Roma, quindi cose che, semplicemente, erano state
dimenticate. Oggi invece si tratta di cose del tutto nuove. Siamo a una svolta,
e con la telematica e le reti andiamo verso una forma di organizzazione che è
radicalmente diversa dall'organizzazione politica classica. Verso un'altra
concezione del vivere associato e civile.
Meglio fare un passo
indietro e cercare l'approccio giusto...
Certo. L'uomo della strada
(o della stanza, se vogliamo chiamarlo così) deve essere consapevole del fatto
che il mondo virtuale che egli contribuisce a fondare stando nella rete è nello
stesso tempo un mondo reale, corporeo. La virtualità che emerge e diventa
realtà, questo l'approccio giusto, che salva l'anima.
Vediamo: se io
viaggiando sulle reti provo un senso di frustrazione è perché non ho capito
cos'è la virtualità e dove porta? Possiamo allora guardare dentro la virtualità?
Di che cosa è fatta? Quali elementi la compongono?
Mi chiedete una
grammatica. E allora: la virtualità sulle reti si compone di connettività,
ipertestualità e interattività. Tutti conoscono questi elementi, ma pochi
riescono a vederne l'intima natura e soprattutto a scorgere quel che scaturisce
dal loro intreccio. Quando dico connettività, dico possibilità di accesso a un
numero illimitato di informazioni, dalle più rare alle più banali. Se dico
numero illimitato, dico che la connettività non può essere qualcosa di statico,
come un cenacolo di cervelli, sempre gli stessi, collegati fra loro: dev'essere
bensì qualcosa che cresce in accelerazione radiante verso tutte le direzioni. La
quantità di persone che si connettono alla rete deve essere in continua crescita
grazie a una banda di accesso via via più larga. Se la crescita in estensione e
profondità dovesse arrestarsi non avremmo più la connettività, che è un fenomeno
nuovo, ma ricadremmo in quel fenomeno del tutto rispettabile, ma vecchio, che è
la collettività. Ciò pone il problema di rendere più facile l'accesso alle reti,
quello tecnico-economico e quello cognitivo, superando le varie resistenze che
ci sono, anche di ordine psicologico.
Connettività come qualcosa di
alternativo alla collettività. E' qui che il discorso prende una piega
politica?
Sì, ma non è il caso di saltare così presto nella sintassi.
Dobbiamo prima finire la grammatica. Il secondo elemento costitutivo della
virtualità è, l'ho detto prima, l'ipertestualità. Ipertestualità, come sapete, è
l'accesso immediato e statistico a tutte le cose che hanno un rapporto tra loro.
Con espressione efficace gli inglesi dicono: "any media, any time, anywhere".
Esempio classico: quando leggo un libro ho accesso solo al testo e, tutt'al più,
a note che mi rimandano a contesti lontani, che potrei raggiungere soltanto con
grande spreco di tempo e di energie, affidando poi il tutto alla mia memoria.
Grazie alle reti, invece, la ricerca, che prima si faceva sul contenuto della
memoria personale, ora si può fare sul contenuto della memoria globale. Posso
chiamarmi, tradurre, scomporre e ricomporre alla velocità della luce qualsiasi
dato, notizia o commento.
Questo, professore, ci ricorda certe sue
lezioni in materia di alfabeti. Il progresso umano è stato sempre legato alla
praticità del mezzo di propagazione della conoscenza, al cosiddetto "principio
di traduzione" del pensiero. Praticità e quindi anche velocità, anche in
rapporto alle distanze che si volevano colmare. Dal pittogramma all'alfabeto
Morse, un vero abisso...
Sì, questo è molto importante per la storia
della cultura occidentale. L'elettricità ci ha dato la velocità, ma l'alfabeto
Morse era ancora lento perché era lenta la translitterazione di ventitré o
ventiquattro lettere alfabetiche in sequenze di punti e linee. Bene, è solo con
il linguaggio informatico binario che il principio di traduzione si è ridotto al
minimo, due segni soli, zero e uno, per cui ora sfruttiamo davvero la velocità
della luce e sappiamo che cosa significa "tempo reale". Tornando alla nostra
grammatica resta il terzo elemento, l'interattività. Il più
importante.
Perché il più importante?
Perché è l'ultimo
arrivato, ed è quello che integrando gli altri due fa diventare reale il
virtuale e, per così dire, restituisce una corporeità a colui che viaggia sulla
rete, sia egli un intellettuale faustiano o un "uomo della stanza" in crisi di
finalizzazione. Provo a spiegarmi. Il lemma "interattività" esiste da appena una
decina d'anni, cioè da quando abbiamo potuto fare zapping sulla Tv, esercitando
così una prima, rudimentale forma di controllo del teleschermo. Ma in questi
dieci anni il concetto si è ampliato in modo enorme. Riflettiamo.
L'interattività anzitutto permette l'esteriorizzazione del pensiero. Se io leggo
un libro, il mio pensiero, nella sua virtualità, è tutto interiorizzato; la
lettura è una forma di ritiro dal mondo; la stessa cosa mi accade se vado al
cinema e guardo un film. Con l'interattività, al contrario, c'è una inversione
della direzione mentale; cambia il mio atteggiamento rispetto al
mondo.
Nel senso che al posto del ritiro subentra
l'impegno?
Proprio così. Un impegno favorito anche dal fatto che
l'interattività di rete mi consente di essere virtualmente presente ovunque io
desideri. Anche in più posti contemporaneamente. E' una cosa che io chiamo
telepresenza ubiquista. Le videoconferenze; ma non solo quelle...
La
rete crea una possibilità di partecipazione personale alla cosa pubblica? E'
questo che lei vuol dire?
Non oso dire "alla cosa pubblica"; dirò "a
una cosa pubblica", pubblica nel senso che viene apertamente discussa sulla rete
e chiunque può intervenire. Si passa insomma dalla one-way di una volta (potevo
solo ricevere) a una sorta di my-way (la mia capacità di intervenire). In questo
intervenire scatta quell'effetto tipico dell'interattività che in inglese si
chiama "mind-machine direct connection"...
La diretta connessione fra
mente e macchina?
Su cui non mi soffermo, perché assai meglio di me
possono parlarne quegli artisti che sono già entrati in confidenza col mezzo
telematico.
E anche perché, forse, è arrivato il momento di
intrattenerci sulla virtualità...
Infatti. Ne abbiamo esaminato il
contenuto; abbiamo visto come la sua terza componente, l'interattività, sia
quella che la realizza, e che presiede, tra l'altro, alle simulazioni che mi
consentono di essere telepresente e ubiquo. Bene, io sono d'accordo con chi ha
detto che il destino della virtualità è quello di essere una forma di
materializzazione del pensiero (mai del corpo), e insieme un modo di
comunicazione sulle reti. Aggiungo: la virtualità è l'esempio palmare della
connessione tra cervello fisico e mente immateriale, cui le reti riescono a dare
consistenza; ma è anche un luogo d'incontro fra persone, nel quale un
immaginario diventa via via sempre più reale.
Si parla molto delle
comunità virtuali, ma pochi ne hanno fatto esperienza e pochissimi sono in grado
di raccontare che cosa effettivamente vi accade. Qualcuno ne parla come se si
trattasse di un passatempo, di uno svago. Qualche altro le considera un luogo
reale, a portata di mano, dove chiunque possa andare.
Può trattarsi
di un gioco oppure di una cosa molto più seria. Tra i giochi, il più noto è
quello della città virtuale, immaginata in comune e poi anche disegnata con una
grafica tridimensionale. Lo psicologo direbbe che è una forma di immaginario
patteggiata in tempo reale fra un certo numero di persone, centinaia o migliaia,
collegate tra loro in quel momento e che hanno tutte la stessa immagine del
mondo. E' un tipo di collaborazione mentale focalizzata su una sola idea, quella
di costruire la città-modello, Utopia, in cui si possa vivere felici.
L'interattività permette un ricco e continuo scambio di punti di vista e di
ruoli; è possibile vedere le cose sotto ogni aspetto e in ogni particolare, come
se si fosse lì sul posto. La città virtuale è un gioco, ma è anche un modo di
evadere da una realtà quotidiana mediocre e soffocante, alla ricerca di una
esistenza sostitutiva; non per niente è popolarissimo in Giappone, dove la gente
vive affastellata, con problemi di spazio tremendi. Ecco, ho voluto dare un'idea
di quello che può essere, anche, una comunità virtuale.
Quasi una
terapia di gruppo...
Assolutamente sì. Ho anche quest'altra notizia.
Persone che erano rimaste coinvolte in gravissimi incidenti d'auto, e che non
riuscivano più a farsi capire, a stabilire una sintonia con i loro parenti e
amici, hanno risolto il loro problema in una comunità virtuale, cioè parlando
fra loro in rete della terribile esperienza che avevano in comune. Il dialogo on
line, in altri termini, come medicina dell'anima, rifugio e riparo
dall'angoscia. In questi casi, però, bisogna parlare di fughe, anziché di
uscite, sulla rete. Ma anche se esistono ormai vere e proprie guide per la
ricerca della comunità virtuale che può fare al caso vostro, la rete non può
essere considerata soltanto un luogo dove rifugiarsi. Difatti non lo è. Anzi è
un luogo dove si stanno gettando le fondamenta non della città dei sogni, ma del
mondo vero di domani, al punto che si avverte ormai l'esigenza di attribuire una
forma di soggettività alle creature del virtuale, perché esse contano anche nel
reale.
Perciò è vero che ognuno può essere quello che è, quello che
tutti conoscono, nella vita e nell'ambiente d'ogni giorno, e poi, grazie alla
virtualità, sdoppiarsi e avere una seconda personalità, una seconda e magari una
terza e una quarta vita sulle reti; e che in queste ipòstasi ognuno può
acquistare quella famosa "sensibilità planetaria", ed essere coinvolto, magari
anche da protagonista, in situazioni che sono reali a migliaia di chilometri da
casa sua? E che a queste personalità virtuali sarà opportuno dare, prima o poi,
un riconoscimento giuridico? Non so: tramite la rete potrei essere eletto
sindaco d'un villaggio della Polinesia, o lottare dal vivo contro la
deforestazione dell'Amazzonia, o essere nominato arbitro d'un contrasto tra
coniugi a Singapore...
Lei corre troppo, però nella direzione giusta,
accennando a prospettive che possono apparire vertiginose o stravaganti. Il
fatto è che a noi della generazione adulta è mancato sia il tempo per assorbire
le macchine telematiche all'interno del nostro universo psicologico, sia lo
spazio mentale per arrivare davvero a considerarle come semplici estensioni del
nostro sistema nervoso (che poi è anche il modo di farne le nostre
schiave).
Per i giovani è già tutto molto diverso, e ai bambini d'oggi
quello che a noi sembra ancora estremamente difficile da accettare apparirà del
tutto naturale?
Quando vediamo i nostri bambini impegnati nei
videogiochi non ci rendiamo ben conto di quel che in essi accade. Imparano l'uso
delle tecnologie mentre il loro sistema nervoso è in fase di sviluppo, e così
acquisiscono, attraverso il gioco elettronico, una particolare capacità di
reagire agli stimoli e di accelerare la creatività. Crescono in simbiosi con le
macchine, si integrano con un ambiente tecnologico, ma, appunto, crescono,
tant'è che stanno ai videogame per due o tre anni e poi passano ad altro.
Intanto si sono addestrati per il cyborg...
Spieghiamo cos'è il
cyborg, professore.
Vuol dire "organismo cibernetico" ed è una
espressione metaforica per indicare l'interazione uomo-macchina e il nuovo
modello di socialità che si forma sulle reti in conseguenza di questa
interazione.
Sembra di rivedere quel celebre film di Fritz
Lang...
Metropolis. Con la grossa differenza che i robot di Lang
erano un misto di meccanica classica e di corpo, mentre qui al posto della
meccanica c'è l'elettronica e al posto dei corpi ci sono le menti. Il cyborg,
stavo dicendo, produce un cambiamento interno all'organizzazione mentale della
persona singola, per cui il pensiero personale, mediante la pratica costante
dell'interattività, si ritrova connesso al pensiero di altri. Da un ciclo
cibernetico input-output tra individuo e rete, rete e individuo, nasce un
modello nuovo di pluralità. E questa pluralità non ha più niente a che vedere
con le vecchie forme di collettività, per esempio con le vecchie audience della
radio e della tv abituate solo ad ascoltare, a recepire, a sentirsi
ammonire.
Quindi neppure con le vecchie, disciplinate, intorpidite
platee della politica tradizionale. Ma che ci mettiamo, professore, al posto
delle forme collettive?
"Al posto" niente. Ma ecco l'emergenza della
virtualità, la sua effettiva incidenza sul reale. Dalle reti nascono gruppi
autorganizzati, software di collaborazione, forme che anziché collettive si
possono definire "connettive" perché si basano sul dialogo vivo e istantaneo che
si svolge per mezzo delle reti e sulle reti. Forme aperte (questo è molto
importante) e sempre accessibili a chiunque. Ripeto, non è che con questo la
"collettività" venga abolita. E, beninteso, neppure viene abolito l'individuo.
Viene semplicemente in essere una terza forma della presenza umana, insomma per
la prima volta nella storia abbiamo una tecnica di comunicazione che senza
eliminare l'individuale e il collettivo è capace di combinare i due nella forma
del "connettivo". Perché sul videoschermo non c'è soltanto il mio lavoro, c'è
anche il lavoro di tanti altri.
E pensare che qualcuno sperava, dalla
telematica, la rivoluzione...
Ma guardi che la rivoluzione è alle
porte, perché le conseguenze sociopolitiche dell'introdurre una simile novità,
che pare innocente e non lo è affatto, si prospettano enormi. Pensi soltanto
alla nascita di gruppi d'interesse che operano in campo economico, o politico, o
culturale, magari con effetti imponenti, e che non si sa dove siano, quale sia
la loro sede, a quale governo o supergoverno rispondano, perché sono partecipati
da persone di tutto il mondo, disperse nei cinque continenti, ed esistono solo
sulla rete.
Questo potrà accentuare la transnazionalizzazione degli
affari. Un fenomeno già ampiamente attestato.
Farà ben di più!
Provocherà il passaggio da una economia basata sul sistema
produzione-distribuzione-consumo a una economia delle reti basata sul trinomio
"just in time-real time-on line". Questo assesterà un duro colpo all'economia
tradizionale, perché renderà aleatoria la programmazione delle aziende e
scarsamente attendibile ogni analisi finanziaria pubblica. Di conseguenza farà
anche vacillare lo Stato classico, ancor oggi basato sulla prevedibilità e
gestibilità dei comportamenti collettivi e totalmente impreparato agli effetti
della connettività.
Gli Stati che vacillano rischiano la caduta. Cosa
vede lei, nel futuro, al posto degli Stati? Il supergoverno mondiale? Il
villaggio globale?
Non credo a queste ipotesi. Le entità statali del
futuro dovranno basarsi sul connettivo assai più che sul collettivo, però credo
che gli Stati rimarranno, sebbene profondamente trasformati. In altre parole:
connettività e transnazionalità della politica, istantaneità e dinamicità delle
relazioni non daranno origine a un Superstato. E nemmeno al cosiddetto villaggio
globale. Ho la sensazione che, viceversa, ogni villaggio diventerà globale, nel
senso che chiunque, da qualsiasi luogo, potrà fare operazioni in qualsiasi altro
luogo. Per esempio dall'Italia si potrà fondare una società in Belize, tenere un
conto corrente in una banca Svizzera, cambiare soldi in Germania. Risparmiando
anche sul conto delle transazioni, grazie alle reti...
Sì, ma questi
Stati del futuro in pratica come saranno? Che tipo di organizzazione dovranno
darsi?
Un'organizzazione che, dovendo riservare molto spazio alla
connettività, metta intelligentemente insieme il pubblico e il privato.
Un'organizzazione, se posso introdurre un neologismo, "pubblivata". Il
centralismo è sicuramente morto. Ma anche il federalismo, per il fatto che è
anch'esso legato a una vecchia concezione della res publica, si può considerare
morto. E sono morte pure le regioni. Che cosa resta? Resta il governo delle
realtà locali, con la gente del posto che partecipa molto da vicino, quasi
fisicamente all'amministrazione del comprensorio in cui vive. Ecco: lo Stato di
domani potrebbe essere una immensa costellazione di iperlocalismi. E in tale
Stato tutti i cittadini avranno ragione di sentirsi "plurali", "locali" e
"amboversi".
Amboversi?
Estroversi e introversi insieme.
Capaci di guardarsi dentro, e contemporaneamente di proiettarsi agli antipodi.
Fino a ieri l'uomo era la misura di tutte le cose; da oggi saranno tutte le cose
a misurare l'uomo. E ogni uomo, grazie alle reti, possiede la misura del
mondo.